Porto Marghera, cento anni di storie in un libro

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Un secolo fa nasceva Porto Marghera. Una terra in cui le contraddizioni si insinuano con prepotenza, tra i fumi delle fabbriche e la natura che lotta disperatamente per sopravvivere. Marghera è una contraddizione a partire dal nome, che rimanda a un non meglio definito concetto di mare: mar-ghe-gera? Ma quale mare? «Quando c’era il mare, qui, non c’era nessuno».

«Maceria – macheria, nel latino medievale pronunciato alla germanica – è la parola che verrà credibilmente individuata come quella da cui scaturisce il nome Marghera». In realtà la prima Marghera stava più a est, tra l’ottocentesco Forte Marghera e un’antica torre. «Quando Venezia […] collocherà la nuova area portuale e industriale al di là del ponte […] sceglierà di farlo ai Bottenighi, più a sud ovest rispetto al forte e alla torre. Nel nulla pre-esistente, quei manufatti acquisiranno una forza eponima».

Nel centesimo compleanno di un’area nata per dare speranza in un futuro industriale, Helvetia Editrice pubblica Porto Marghera. Cento anni di storie (1917-2017), a cura di Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron, sedici narrazioni libere e due poesie «senza vincoli di genere letterario o di stile; e senza obbligo autobiografico». «I racconti contenuti nel libro esplorano, ciascuno a suo modo, questa appartenenza, questo sentire, questo stare come meglio si può nel caos di un luogo, nel disordine della sua storia».

In questo modo emergono le contraddizioni di una terra in cui tanti hanno riposto speranze di un futuro migliore, sogni avvelenati dai liquami e dai gas di scarico ma che trovano riscatto nelle battaglie portate in tribunale contro i responsabili degli incidenti (con esiti vari) e in ospedale contro il cancro. Perché si deve «apprendere dalle contraddizioni che attraversano la nostra esistenza, rendere utili le fatiche che sono costate, trasformarle in esperienza».

«Gli autori sembrano essersi tolti la maschera per offrirsi nella veste di abitanti di un’amata contraddizione urbana ed esistenziale. Emergono certo le diversità: c’è chi privilegia un linguaggio politico, chi storiografico, chi narrativo, chi intimista; ma nessuno sfugge alla responsabilità dimostrare chi sia, cosa pensa, né tantomeno cosa senta».

Le fabbriche di Porto Marghera

E così ecco prendere forma le sagome degli operai in tuta blu che fanno turni massacranti, visti con gli occhi di un liceale bocciato a fine anno e portato dal padre in fabbrica per rendersi conto di cosa significhi lavorare davvero; l’odore degli agenti inquinanti e dei gas tossici; gli scarponi sformati conservati su una mensola dal giorno della pensione; gli scioperi e le lotte operaie, il volantinaggio in minigonna. Ma anche le storie quotidiane di tante famiglie, di coppie anziane che sono state insieme una vita intera, di bambini che osservano affascinati lo spettacolo dei fuochi delle fabbriche, quello stesso panorama che i ragazzi mostrano alle morose per fare colpo.

I contributi provengono dalle penne di Beatrice Barzaghi e Maria Fiano, Nicoletta Benatelli, Gianfranco Bettin, Ferruccio Brugnaro, Annalisa Bruni, Alessandro Cinquegrani, Marco Crestani, Maurizio Dianese, Fulvio Ervas, Roberto Ferrucci, Paolo Ganz, Giovanni Montanaro, Massimiliano Nuzzolo, Tiziana Plebani, Gianluca Prestigiacomo, Sergio Tazzer. Sono loro ad aver raccontato qualcosa di molto simile alla «dolce ossessione» che Venezia – nel testo di Guccini – «vende ai turisti […] che guardano alzarsi alla sera il fumo – o la rabbia – di Porto Marghera».

Rebecca Travaglini

Ti potrebbe interessare