Riapertura Veneto, così il Covid attecchisce fra abitudine e divisioni

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

A lanciare l’ipotesi è stato un articolo uscito su Repubblica, che dava la riapertura Veneto (si parla del 20 aprile come data, ma probabilmente sarà a maggio) come probabile, fra le prime regioni, nel caso si decidesse di allentare la morsa delle chiusure causate dal Covid-19. Questo per una serie di dati: incidenza del contagio nella popolazione, pressione sugli ospedali, over 80 vaccinati. Numeri che dipingono una situazione che potrebbe portare alla riapertura Veneto. Ma c’è una cosa – fra le tante – che questa pandemia ci ha insegnato: i numeri non rispecchiano così fedelmente la realtà. Gli ospedali e le strutture venete, ad esempio, sono sotto pressione, eccome: lo sono da più di 13 mesi e mezzo, ormai. E se è vero che sono aumentati i posti, è altrettanto vero che il personale è rimasto lo stesso. Magari più preparato dal punto di vista medico, ma provato da oltre un anno di trincea. Prima di parlare di riapertura Veneto questo va chiarito: non basta aver aumentato i posti in ospedale, i malati non si curano da soli, facendoli sedere in un letto o attaccandoli ad una macchina.

Riapertura Veneto, il problema è più ampio

Numeri, dicevamo. La pandemia ci ha mostrato la capacità di resilienza che abbiamo, anche con aspetti giocoforza meno positivi. Ad esempio ci siamo abituati ai numeri: i decessi quotidiani spaventano, certo, ma mai come 12 mesi fa. Eppure si parla di centinaia e centinaia di persone al giorno, 114mila morti da inizio pandemia. Senza coloriture politiche, e per questo non nomineremo né politici, né partiti, mettiamo sullo stesso piatto della bilancia i numeri dell’economia. Anche in questo caso la paura è che ci sia l’abitudine ormai alle cattive notizie. Dati spaventosi, come gli ultimi della Cgia di Mestre, passano ormai quasi inosservati. Ovviamente non da chi ha un’attività economica, persone che probabilmente non hanno bisogno di tabelle per capire la difficoltà del momento.

Sono due quindi i timori che abbiamo ora: l’abitudine, e la divisione. Abitudine a bollettini di morti e contagi (considerati quasi “fisiologici” da alcuni riaperturisti), abitudine a dati economici (che spingono alcuni a bollare come politicizzata oppure scomposta la protesta di chi non ce la fa più). Noi li teniamo insieme, volutamente: il dramma economico provoca povertà, difficoltà, disperazione, morte. Sì, perché si muore anche così, senza arrivare a fine mese.

Su questo si innesta il tema della divisione. Riapertura Veneto o altre Regioni? Chi rimane chiuso si lamenta. Isole covid-free per rilanciare il turismo? No, solo se riaprono tutte le realtà turistiche. Zona arancione con parrucchieri ed estetisti aperti? Lamentele di molte altre categoria. Pass vaccinale per chi ha avuto vaccino o Covid? No, perché discrimina gli altri (e al momento siamo a tredici milioni di italiani con almeno una dose di vaccino, neanche un quinto della popolazione. E solo quattro milioni hanno ricevuto due dosi, il ciclo completo). Abitudine e divisioni: un mix letale, quasi quanto il Covid, che possiamo combattere solo con forza di volontà e capacità di restare umani, pur nel dramma.

 

Ti potrebbe interessare