Giornalismo, Bassan: «Il modello di business esiste e si basa sul lettore»

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«Quale futuro per il business del giornalismo?». Domanda da un milione di dollari. A delineare una risposta, nell’ambito della rassegna Tempi Moderni, ci ha provato Valerio Bassan, consulente di strategia digitale in ambito media. Mettendo subito in chiaro una cosa: «La carta sta scomparendo, è uno dei device, sempre meno popolare. Non è il luogo degli approfondimenti, come qualcuno vi dice». Uno dei device. Ecco quindi il primo consiglio.

«Come dicono in America, sviluppate una competenza a T – ha proseguito Bassan, rivolto al pubblico di Tempi Moderni, al centro culturale San Geatano di Padova, il 17 aprile -. Ovvero specializzatevi in qualcosa di verticale, vostro punto di forza, ma sappiate muovervi anche sul lato orizzontale della T, sapendo cambiare linguaggio e punti di vista».

Bassan è un giovane con alle spalle già una vita da freelance. Con un’esperienza internazionale: a Berlino fonda Il Mitte – quotidiano online in lingua italiana -, in Italia lavora (tuttora) per Vice e da non molto per Il Sole 24 Ore, a New York una fellowship universitaria dove ha imparato marketing, business plan, come ci si svincola dall’idea che il contenuto sia il pilastro che fa funzionare un prodotto editoriale, insieme ad altri «giornalisti a metà carriera».

Gli online che ce la fanno, dal FT al New York Times

Il presupposto è chiaro: cambiano i modelli perché si è passata dalla scarsità di informazione del Novecento alla Rete, ovvero alla sovrabbondanza. Tantissima scelta, «anche troppa», e il problema diventa orientarsi e scegliere bene. Il giornalismo, chiarisce Bassan, è poco collaborativo, anzi, sembra una vera e propria gara di sopravvivenza. Ma anche le testate online hanno avuto le stesse difficoltà dei quotidiani cartacei. Con delle buone eccezioni: il Financial Times ha raggiunto il milione di utenti a pagamento, il New York Times ha più di 3 milioni di lettori, molti dei quali abbonati.

Ma come pensano di sopravvivere questi prodotti editoriali? «I media sono un business semplice: scegli un settore di riferimento, lo copri, arriva l’audience: e allora o vendi l’audience o vendi il prodotto all’audience». C’è anche un terzo modello, ricorda Bassan: oltre a pubblicità e abbonamenti si può vendere l’abilità di raggiungere l’audience o di scrivere in un tema specifico. In altre parole: dal publiredazionale in rete alla campagna di comunicazione ad hoc. Quasi tutti i maggiori media hanno, o stanno sviluppando, la propria agenzia di comunicazione o di pubblicità.

Quello che viene chiamato il metodo agenzia. E fare pubblicità quindi significa «vendere l’attenzione del tuo pubblico attraverso elementi pubblicitari affiancati al contenuto». Entrando nel merito dei metodi di monetizzazione, la stroncatura arriva per i banner: si vendono a troppo poco, riempiono le pagine in maniera invasiva e in realtà non hanno mai funzionato. Tanto che i nostri occhi, come dimostrano alcune mappe di calore che tracciano ciò che noi guardiamo, sono abituati a saltarli. E portano a fenomeni di clickbaiting – le notizie sensazionalistiche per attirare visitatori sui siti – che hanno minato la fiducia nei media.

Lo scettro torna ai lettori

E invece, ricorda Bassan, «mai come oggi ci sono contenuti validi da poter leggere. Siamo nel periodo migliore per analisi e approfondimenti, ma nonostante questo, grazie al clickbaiting, il giornalismo viene screditato». Tanta spazzatura: solo il 3% dei contenuti online si può veramente definire giornalistico.

Molte testate stanno virando su una strategia di pagamento dei contenuti online. L’era del «pivot to readers», ovvero si guarda ai lettori e non ai player pubblicitari. Il New York Times è l’esempio: dal 2000 ad oggi è calata la pubblicità su carta, è cresciuta (ma non abbastanza) quella online, sono aumentati gli abbonamenti dal 23 al 54%, quasi totalmente online.

Sbagliare aiuta: nel 2007 il primo tentativo di paywall non funzionato. Dal 2013 il secondo tentativo: ora gli abbonati sono 2,6 milioni. Un processo virtuoso: il pagamento richiede contenuti di qualità, magari unici. Una corsa al buon giornalismo che si sta propagando. Con modelli diversi: hard paywall (tutto si paga), membership (contenuto aperto ma chi vuole paga), metered paywall (un tot di contenuti gratuiti e poi si paga) e freemium (alcuni contenuti a pagamento e altri gratis).

Ma il metodo migliore per monetizzare rimane la somma dei metodi. Più canali, più risposte. Affondando uno dei miti fondativi dell’editoria:  il contenuto è tutto. Meglio ragionare di pubblico, secondo Bassan: funziona la nicchia, anche ampia, con tanta verticalità e meno visione generalista.

Tempi Moderni, ultimo ospite Roberto Olivi

Bassan è stato il quarto ospite della rassegna realizzata dall’Ufficio Progetto Giovani del Comune di Padova con il patrocinio del FISPPA – Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova. Nell’incontro precedente Massimo Sideri, guida di Corriere Innovazione, aveva mostrato al pubblico un’Italia diversa da quanto ci si racconta di solito. Un Paese a grande spinta innovativa, incapace però di raccontare – e soprattutto commercializzare – i propri prodotti tecnologici.

Prima di lui erano intervenuti David Puente, giornalista di Open, il quotidiano online di Enrico Mentana, e debunker di professione. Puente aveva spiegato come combattere le fake news: smascherandone i diversi tipi e trattenendo l’emozione, ovvero la leva che porta alla condivisione di istinto, senza analisi.

Il primo incontro del ciclo, invece, era stato con Giuseppe Tipaldo, ricercatore dell’Università di Torino. Lo studioso aveva «rimesso l’uomo al centro», spiegando come il propagarsi di pseudoscienza e notizie false non sia colpa della cassa di risonanza dei social network, ma di chi le pensa e le diffonde.

La rassegna si chiuderà mercoledì 15 maggio (ore 17, centro culturale San Geatano, ingresso libero) con Roberto Olivi, Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione di BMW Italia. Laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano, ha maturato un’esperienza ventennale nel settore della comunicazione, con particolare attenzione al comparto dell’automotive. Lavora per il gruppo BMW dal 2001. Per La nave di Teseo ha pubblicato «La comunicazione è un posto dove ci piove dentro. Perché i libri salveranno il marketing», un volume capace di riportare la lettura, l’ascolto e il racconto al centro della creatività nell’era digitale.

Giacomo Porra

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