Occupazione, il Veneto rischia: calo di 150mila attivi entro il 2030

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Gli occupati in Veneto continuano a calare. Dati alla mano, tra il 2021 e il 2030 la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) della regione è destinata a scendere di oltre 150mila unità (-4,9%). 

Stando alle stime nessun’altra regione italiana del Centro-Nord dovrebbe subire una contrazione in termini assoluti così elevata. Pertanto, se tre anni fa la popolazione in età lavorativa del Veneto era pari a poco più di 3,1 milioni di persone, nel 2030 la stessa è destinata a scendere a poco più di 2,95 milioni di unità. Il calo demografico, comunque, interesserà indistintamente tutto il Paese e avrà un impatto negativo anche sul Pil e in generale sul sistema economico e sociale di ciascun territorio. Il risultato è stato elaborato dall’Ufficio studi della CGIA che si è avvalso delle previsioni demografiche redatte dall’Istat e dall’Eurostat

Se a questa dinamica demografica aggiungiamo gli effetti del cambiamento climatico, della transizione energetica e dell’intelligenza artificiale, tutto ciò avrà delle ricadute anche per le nostre imprese. La difficoltà, ad esempio, di trovare giovani lavoratori da inserire nelle imprese artigiane, commerciali o industriali è avvertita già in questo momento, figuriamoci fra qualche decennio. Con sempre meno ragazzi che si affacceranno al mercato del lavoro, per tantissime aziende trovare del personale preparato da inserire nei processi produttivi costituirà una mission impossibile.

Chi spera in una inversione del trend demografico rischia di rimanere deluso. Purtroppo, non ci sono misure in grado di cambiare segno a questo fenomeno in tempi ragionevolmente brevi. E nemmeno il ricorso agli stranieri potrà “risolvere” la situazione. Pertanto, dobbiamo rassegnarci a un progressivo rallentamento, probabilmente anche di natura economica. Senza contare che una società con meno giovani e più anziani dovrà fronteggiare un’impennata della spesa previdenziale, di quella sanitaria e di quella assistenziale da far tremare i polsi. Va altresì segnalato che questo scenario così preoccupante tenderà ad allargare ulteriormente la forbice tra il Nord e il Sud del Paese.

Aumentano invece le disparità economiche tra Nordest e Sud 

Negli ultimi decenni le disparità tra il Nord e il Sud Italia sono aumentate. Sebbene il nostro Paese abbia beneficiato tra il 2000 e il 2020 di ben 125 miliardi di euro di fondi UE per la coesione territoriale e una buona parte di questi soldi sia stata erogata proprio alle regioni del Mezzogiorno, le distanze sono cresciute. Analizzando il Pil pro-capite e fissando il dato al 2000 pari a 100, nel 2021 nel Centro l’indice è sceso a 93,8, nel Mezzogiorno si è attestato a 94,9, nel Nordest a 98,7 e nel Nordovest a 101,4. Comparando i risultati delle aree più ricche del Paese con quella più in difficoltà, registriamo che rispetto al Nordest, il Sud ha perso 3,7 punti e nei confronti del Nordovest addirittura 6,4 punti (Fig. 1). E’ evidente che i soldi non bastano. Sono una condizione necessaria, ma non sufficiente a risollevare le sorti di un’area svantaggiata.  

Bassa qualità dei progetti per cui riceviamo i finanziamenti UE 

Rispetto alla gran parte dei principali Paesi dell’Unione, l’Italia presenta delle criticità storiche che, purtroppo, non riusciamo a rimuovere. Ci riferiamo alla lentezza burocratica e all’inefficienza cronica, in particolare delle Amministrazioni regionali del Mezzogiorno, che, destinatarie di una buona parte di questi fondi di coesione UE, spesso non hanno le risorse umane e le competenze necessarie per realizzare i programmi operativi. Ma il vero handicap va ricercato nella bassa qualità dei progetti che presentiamo. Questi ultimi, una volta realizzati, producono un effetto moltiplicatore molto contenuto; insomma, non sono in grado di generare delle ricadute significativamente importanti per l’economia e la qualità della vita dei territori interessati da queste operazioni. 

Progetti di bassa qualità, ma anche tempi di realizzazione “biblici” sono due specificità che caratterizzano negativamente i nostri investimenti pubblici. Secondo la Banca d’Italia, infatti, a fronte di una spesa mediana di 300 mila euro, nel nostro Paese il tempo medio per la realizzazione di un’opera è di 4 anni e 10 mesi. La fase di progettazione dura poco più di 2 anni (pari al 40 per cento della durata complessiva), l’affidamento dei lavori dura 6 mesi e sono necessari oltre 2 anni per l’esecuzione e il collaudo. Per un investimento di cinque milioni di euro, invece, il tempo di realizzazione è di ben 11 anni. Auspicando che il nuovo codice degli appalti e le riforme che stanno interessando la nostra Pubblica Amministrazione riducano in misura significativa queste tempistiche, appare comunque evidente che non solo i fondi di coesione UE, ma anche la messa a terra del PNRR, rischiano, nel prossimo futuro, di riservarci delle brutte sorprese.

In Veneto la PA più efficiente d’Italia

Secondo uno studio dell’OCSE, l’inefficienza della nostra Pubblica Amministrazione ha delle ricadute negative sul livello di produttività delle imprese private. In buona sostanza, dai calcoli dell’Organizzazione ottenuti attraverso l’incrocio della banca dati Orbis del Bureau van Dijk e dei dati di Open Civitas emerge che la produttività media del lavoro delle imprese è più elevata nelle zone (Nord Italia) dove l’Amministrazione pubblica è più efficiente (sempre Nord Italia). Il Veneto, da questo punto di vista, non teme confronti con nessun’altra regione settentrionale. 

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