Sessant'anni dopo, Mattarella sul Vajont per ricordare la strage. «Gli atti del processo rimangano a Longarone»

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Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua – diceva Dino Buzzati – e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri – continuava lo scrittore e giornalista sul Corriere della Sera – il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.

Sono parole vecchie di 60 anni, ma non sappiamo trovarne di migliori, perché il dolore non sembra essere invecchiato e le descrizioni per chi non c’era o non era nato sono difficili. Sessant’anni fa, il 9 ottobre del 1963, un calcolo sbagliato dell’uomo provocava 1909 morti: una frana si staccava dal monte Toc, cadeva nella diga del Vajont, provocando un’onda che spazzava via Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova e Fae’.

Quella diga probabilmente non si sarebbe dovuta neanche costruire, tanto il pericolo era palese. Non solo: si poteva evitare la strage, una volta costruita la diga, svuotandola da quell’acqua carica di morte. Sì, l’uomo e le sue scelte hanno condannato quelle persone. Una condanna più efficiente di quelle della nostra magistratura: pena di morte scelta nel costruire la diga, nel volerla riempire, nell’ignorare o tacitare i geologi contrari (molti, però, furono conniventi), nel querelare Tina Merlin, la giornalista che aveva avuto il coraggio di dire, dati alla mano, “quella diga ci ammazzerà tutti”. L’aveva detto prima, inascoltata. Il suo “Sulla pelle viva”, il libro che riassume storia e allarmi, non è un libro: è sale sulla ferita.

Longarone – Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella depone una corona di fiori al cimitero monumentale “Vittime del Vajont”,oggi 9 ottobre 2023.
(Foto di Paolo Giandotti – Ufficio Stampa per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

A sessant’anni di distanza il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è salito lunedì 9 ottobre su quella diga, dopo aver visitato il cimitero-memoriale dedicato alla vittime, già a Fortogna. Ecco le sue parole.

Siamo qui oggi, con il Presidente della Camera dei deputati, il Ministro che rappresenta il Governo, i Presidenti delle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto, i Sindaci di Longarone, Erto e Casso e Vajont, e tanti altri Sindaci delle due Regioni presenti.

«Siamo qui a rendere memoria di persone. Le persone che hanno abitato queste vallate. Quelle che sono morte il 9 ottobre 1963. Quelle che sono sopravvissute. Quelle che hanno dovuto lasciare le loro case e quelle che hanno lottato strenuamente per ricostruirle, per rimanervi. Storie di luoghi che non vi sono più, storie di luoghi che la tenacia degli abitanti ha voluto far rivivere dopo la tragedia. Insieme con Longarone, Pirago, Maè, Villanova e Rivalta, Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè, Erto e Casso.

Oggi ci troviamo in un Parco, quello delle Dolomiti Friulane che, nella bellezza di questi luoghi, doverosamente, dedica percorsi alla memoria. Siamo di fronte a due quadri: quello delle Prealpi Carniche. E la diga, creazione artificiale. Entrambi, oggi, silenti monumenti alle vittime, a quelle inumate nei cimiteri, a quelle sepolte per sempre nei greti dei torrenti, sulle pendici: donne, uomini, bambini. Quasi cinquecento bambini. Immenso sacrario a cielo aperto che si accompagna al Cimitero di Fortogna, mausoleo nazionale, dove è stato significativo, poc’anzi, vedere 487 bambini in ricordo di quelli morti allora.

Riflettiamo: la frana, la sparizione, nel nulla, di un ambiente, di un territorio, di tante persone. La cancellazione della vita. Sono tormenti che, tuttora – sessant’anni dopo – turbano e interrogano le coscienze. Il generale Giampaolo Agosto, allora giovane ufficiale del 6° Reggimento artiglieria da montagna, intervenuto con gli uomini al suo comando, nelle ore immediatamente successive alla tragedia, ha ricordato, in queste settimane, che i suoi soldati, di fronte a tanto orrore, avevano gli occhi fissi nel vuoto.

Vogliamo, oggi, sforzarci di immaginare di specchiarci anzitutto negli occhi di coloro che non vi sono più; che, quando giunsero gli alpini, non c’erano più. Negli occhi dei soccorritori. Negli sguardi severi dei sopravvissuti. Negli occhi di chi oggi è, qui, depositario di questi territori. Per poter dire che la Repubblica non ha dimenticato. Per poter dire che – come ha esortato il Presidente Zaia poc’anzi – riuscire ad assicurare condizioni di sicurezza e garanzia di giustizia – come richiede il buon governo – rimane obiettivo attuale e doveroso nella nostra società. Perché occuparsi dell’ambiente, rispettarlo, è garanzia di vita.

Per non capitolare a quello che il Presidente Fedriga ha chiamato “desiderio cieco dell’uomo di piegare a proprio piacimento la natura per guadagnarne il massimo profitto”. A un intervento dell’uomo che si traduca in prevaricazione, corrisponde la violenza della natura. Quella violenza che la sapienza delle popolazioni locali, in antica intimità con l’ambiente, sa temere e da cui cerca riparo, sapendo come va rispettata la natura. Il disastro del Vajont, come sappiamo – e come è stato ricordato – venne paragonato a quello determinato dallo spostamento d’aria derivante dall’esplosione di un ordigno nucleare.

Le Nazioni Unite hanno classificato questo evento come uno dei più gravi disastri ambientali della storia che sia stato provocato dall’uomo.Per questa ragione, il 9 ottobre, è stato indicato dal Parlamento “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’uomo”. La tragedia che qui si è consumata reca il peso di gravi responsabilità umane, di scelte che venivano denunziate, da parte di persone attente, anche prima che avvenisse il disastro.

Assicurare una cornice di sicurezza alla nostra comunità significa saper apprendere la lezione dei fatti e saper fare passi avanti. L’interazione dell’uomo con la natura è parte dell’evoluzione della natura stessa. Perché l’uomo fa parte della natura, ma non deve diventarne nemico. Non si tratta di un tema di esclusivo carattere ecologico. Ce lo ha rammentato, pochi giorni addietro, anche Papa Francesco con la sua ultima esortazione. Si tratta di saper porre attenzione e saper governare, con lungimiranza, gli squilibri che interpellano, mettendo in discussione, l’umanità e i suoi destini.

Sui luoghi della tragedia, il giorno dopo svettava, solitario, a Pirago, il campanile della Chiesa di San Tomaso apostolo. Il tempo non diluisce il dolore, ma quel campanile, oggi restaurato, appare, nella sua solitudine, quasi simbolo della resilienza di questo territorio e della sua gente. Gente di paesi che, come poc’anzi, al cimitero di Fortogna, ricordava il Sindaco Padrin, ha voluto tornare alla vita.

Di chi – insieme allo strazio della perdita dei propri cari, della propria casa, dei propri averi – si è trovato di fronte a una scelta angosciante: andarsene o “resistere”. Esperienze che ritroviamo nei dialoghi di un sopravvissuto di Erto, Mauro Corona, nel suo “Quelli del dopo”.

Quel che li ha guidati – e che deve muovere anche noi – è l’ansia di riconciliarci con il mondo che ci ospita, con la natura e l’ambiente in cui siamo immersi. Perché i disastri cambiano i luoghi ma il futuro delle popolazioni dipende anche dalla resistenza di coloro che, come i valligiani di questi luoghi, non si sono arresi. Un altro impegno si avverte, irrinunziabile. Quello della memoria che i cittadini di questi Comuni continuano a coltivare e che tutti avvertiamo come compito della Repubblica.

Anche per questo motivo ritengo che sia non soltanto opportuno ma doveroso che la documentazione del processo celebrato a suo tempo sulle responsabilità rimanga in questo territorio. Quella documentazione era stata, necessariamente, raccolta nei luoghi del giudizio penale perché aveva allora una finalità giudiziaria. Conclusi, da tanti anni, i processi, oggi riveste una finalità di memoria. Appunto per questo, è stata inserita dall’UNESCO nel suo Registro della Memoria. E quel che attiene alla memoria deve essere conservato vicino a dove la tragedia si è consumata. Per rendere onore alle vittime del Vajont e per riceverne un ammonimento per evitare nuove tragedie».

Gloria Milan

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