Confindustria e il Veneto che (non) conta

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È una routine nelle redazioni delle testate locali come la nostra. Avviene un fatto nazionale – in questo caso, l’elezione del nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi – e subito si cerca una “ricaduta locale”, una rilettura territoriale di quella notizia. Così abbiamo pensato: ripercorriamo la storia dei presidenti veneti di Confindustria. A memoria non ci è venuto in mente nemmeno un nome, così abbiamo cercato nell’albo storico, per esser sicuri. E ne abbiamo trovato uno: Giuseppe Volpi di Misurata. Dal 1934 al 1943. Sì, quello di Porto Marghera, della Sade, della Coppa Volpi alla Mostra del Cinema. Quasi cent’anni fa.

Il Veneto, 10% del Pil italiano, è irrilevante ai vertici confindustriali. Lo è da sempre. E anche questa volta, mentre la Lombardia saluta il “suo” Carlo Bonomi mentre dà il cambio al salernitano Vincenzo Boccia. Ancora una volta, ci vanteremo dei nostri vicepresidenti. I vice veneti. E sia chiaro: si tratta generalmente di ottimi imprenditori, di persone di talento, di imprenditori realmente convinti del valore che l’associazione, come sistema di rappresentanza, esprime. Di gente che sa fare la differenza. E questo rende ancora più colpevole la mancanza di capacità di azione politica che contraddistingue il sistema confindustriale veneto.

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Confindustria: la locomotiva consolatoria e la conta dei campanili

Ci consoliamo (o no?) con l’immagine della «locomotiva del Nordest» che spesso ci viene affibbiata o ci auto assegniamo. Condannati all’irrilevanza. Torniamo spesso a chiederci il perché. C’è una ragione territoriale, certo, che racconta di un tessuto fatto soprattutto di piccole e medie imprese, più che di grandi capitani d’azienda, che pure, ricordiamocelo, non mancherebbero. Ma forse la questione è che il territorio “conta” in un senso diverso. “Conta” i propri campanili, così vicini e così lontani uno dall’altro. Le varie associazioni provinciali o sovraprovinciali, infatti, in troppe occasioni hanno dimostrato di guardare il dito, non la luna, accanendosi in inutili lotte per il primato interno più che nella definizione di strategie per “contare” di più sui tavoli più importanti.

Tutti contro tutti: perfino le fusioni – pensiamo a quella di Treviso con Padova e alle pesanti conseguenze sul fronte dei rapporti con Vicenza – sono state occasione di polemica o di costruzione di nuove barriere, più che di integrazione e unità di sistema. La riprova sta nel fatto che nel sistema di Confindustria territori come le Marche o la provincia di Bolzano sono più piccoli ma spesso hanno avuto la capacità di essere  più influenti. E va da sé che campanili economici incapaci di allearsi fra loro non siano mai riusciti a fare rete con altri territori (l’Emilia-Romagna, le stesse Marche, la Puglia…) simili per composizione industriale e interessi in termini di politica economica. Quelli che si potrebbero definire alleati naturali.

C’è poi un’altra caratteristica, purtroppo radicata: la miopia politica. Il Veneto conta poco fra gli industriali come conta poco, se non meno, nella politica nazionale. Sembra proprio un’allergia, per giunta non di stagione. Una lontananza che si conferma giorno per giorno, purtroppo. Ultima prova? La tempestiva presa di posizione di Assindustria Venetocentro che, ancora a inizio dell’emergenza Coronavirus, chiedeva le dimissioni del Governo Conte. Tempestiva, certo: primi (e di fatto unici) a sostenere che nel mezzo delle decisioni cruciali sul distanziamento e sull’abbattimento della pandemia invitavano il Governo a dimettersi, per lasciare spazio a un nuovo giro di consultazioni, accordi, tavoli, insediamenti. Esattamente il contrario di quel “Fare presto” che spesso – e a ragione – è la parola d’ordine per un imprenditore.

Domenico Lanzilotta

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