Sposto l'azienda all'estero: la sirena della Carinzia (e le altre)

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di Silvia Fabbi

Imposta sulla società del 25% (nessuna Irap), contributi per gli investimenti fino al 35% e per la ricerca e sviluppo fino al 60%, nonché la deduzione di tutte le spese necessarie per la produzione del reddito. Sono questi i vantaggi competitivi della regione austriaca della Carinzia che stanno invogliando almeno una cinquantina di imprenditori veneti a trasferire oltreconfine la propria attività. Ma sono in molti che, già in tempi non sospetti, hanno optato per un trasloco ancora più estremo e conveniente, scegliendo l’Est Europa. Obiettivo: portare il capitalismo oltre l’ex Cortina di ferro.

I vantaggi dell’ex blocco sovietico
Attirati dalle agevolazioni fiscali elaborate dai Paesi dell’ex blocco comunista per ammaliare gli investitori stranieri, decine di imprenditori italiani e soprattutto veneti hanno finito per trasferirvisi in pianta stabile, in alcuni casi chiudendo definitivamente i battenti in patria. Il fenomeno si è esteso al punto che un quinto delle filiali estere di aziende italiane si trova concentrata fra Romania, Polonia, Ungheria e Bulgaria. Questi paesi raccolgono da soli l’80% delle imprese a Est dell’ex Cortina di ferro, per un totale di 4.000 unità, considerando solo le realtà con un fatturato superiore ai 2,5 milioni di euro. A fare da pioniere in questa “conquista dell’Est” erano state le trevigiane Geox e Stefanel, che pur mantenendo la propria sede leagale nel Belpaese (rispettivamente a Montebelluna e Ponte di Piave) avevano deciso di trasferire buona parte della manifattura in Romania. Qui sono tuttora presenti 15.000 imprese a capitale italiano, attirate dal basso costo del lavoro.

Padroncini veneti alla conquista dell’Asia
Con l’ingresso di Bucarest nell’Ue però i salari si sono alzati: a quel punto Geox e Stefanel hanno deciso di spostare la propria produzione verso l’Asia. Terra di conquista dei padroncini veneti dopo la caduta del Muro è stata anche l’Ungheria, dove nel 2007 si contavano 2.300 realtà italiane. Anche qui a fare da apripista sono state le aziende di casa nostra, prime fra tutte la Benetton di Ponzano Veneto (Treviso) e la San Benedetto di Scorzè (Venezia). ll loro esempio è stato poi seguito anche da Intesa San Paolo, Unicredit, Generali, Ferrero, Mapei e Colussi. Ferrero ha sedi in Repubblica Ceca, dove incontriamo ancora i due istituti di credito già citati e le assicurazioni Generali, ma anche Candy e Beghelli. I veronesi di Calzedonia invece hanno deciso di stabilirsi in Croazia e con loro i bergamaschi della Same Deutz-Fahr che producono trattori e i friulani delle cucine Snaidero. Secondo il giovane manager di Unicredit Matteo Ferrazzi, insieme al giornalista Matteo Tacconi autore del libro “Me ne vado a Est” pubblicato da Infinito Edizioni, questa situazione è il frutto della fuga verso Est di una marea di “padroncini, sognatori e professionisti, che sono andati alla conquista di quello che fino a pochi anni fa era un Far West imprenditoriale”. I Paesi dell’Est rappresentano un sesto di tutto il commercio italiano, e nell’area sono concentrati un quarto di tutti gli impiegati italiani che lavorano all’estero per conto di aziende nostrane. I due strumenti principali che, fin dai primi anni Novanta, i paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica e quelli post sovietici hanno utilizzato per attirare capitali stranieri sono stati le privatizzazioni e la predisposizione di un ambiente operativo favorevole all’attività d’impresa, snellendo la burocrazia, costruendo pacchetti di incentivi per la creazione di società in determinate aree a fiscalità agevolata e promuovendo una bassa tassazione. L’ultimo arrivato, il Kossovo, indipendente dal 2008, propone ad esempio un’aliquota fiscale unica per le imprese al 10%. Oggi secondo l’Eurostat quasi la metà della produzione slovacca e ceca è in mano a imprese estere.

Stile italiano, ma fabbriche straniere
Fra le aziende del tessile-abbigliamento la Miroglio, storica azienda piemontese madre dei marchi Motivi, Elena Mirò e Caractère, ha delocalizzato in Bulgaria, terra interessata da un fenomeno tipo green field, con impianto di fabbriche ex novo. A far la parte del leone in questo contesto è la Polonia, terra di conquista per 1.400 aziende italiane (500 fatturano più di 2,5 milioni di euro) che impiegano complessivamente 50.000 persone. Fra queste c’è la Ferrero, che vi è sbarcata nel 1992. In Polonia troviamo anche la Mapei del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, quinto investitore del Paese dopo Autostrade Spa. Ma la zona di Varsavia e dintorni è stata prescelta anche dalla Fiat, che dal 2003 vi realizza la Panda e dal 2007 la Nuova Cinquecento. Nel 2008 la produzione polacca a marchio Fiat (escludendo gli altri marchi del gruppo, vale a dire Alfa Romeo e Lancia) ha additittura superato quella italiana. Sempre la Fiat ha un altro forte punto di appoggio in Serbia, dove è nata una joint venture con il governo di Belgrado per costituire la Fiat Automobili Srbija (67% Fiat Group, 33% governo serbo). Oggi qui 2.500 operai lavorano alla produzione della Fiat 500L, che prende forma nel nuovissimo stabilimento di Kragujevac costato un miliardo di euro (250 milioni messi dalla stessa Fiat, 350 milioni dal governo di Belgrado e 400 milioni da un finanziamento della Banca Europea per gli investimenti).
Fra i paesi con il legame più stretto con l’Italia, anche se in direzione contraria, c’è l’Albania, che nel Belpaese conta 22.000 imprenditori e vi esporta il 30% dei propri prodotti. Questi i numeri. Eppure, anche solo guardando i giornali economici, è la Cina a comparire maggiormente nelle testate, in misura di almeno tre o quattro volte superiore. Per farsi un’idea dei rapporti di forza, basti pensare che il numero di imprese italiane presenti nell’Europa dell’Est è quattro volte superiore a quello delle aziende, sempre italiane, presenti in Cina. Questo considerando solo le imprese con fatturato superiore ai 2,5 milioni di euro. Se tenessimo conto anche delle piccole e piccolissime imprese la proporzione sarebbe ancora più accentuata. Lo stesso tipo di rapporto vale anche per l’import/export. Dai Paesi dell’ex Jugoslavia, dalle Repubbliche Ceca e Slovacca, dalla Polonia e dall’Ungheria importiamo due volte quello che importiamo dalla Cina ed esportiamo verso gli stessi Paesi un flusso di prodotti otto volte superiore a quello in uscita verso il Dragone.

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