Zip Padova, un'inchiesta: dai campi espropriati a un futuro da ripensare

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“Torneranno i prati. Una nuova vita per la zona industriale” è il titolo dell’inchiesta che pubblichiamo, scritta dal giornalista Gianni Belloni dell’associazione Lies e presentata a Padova nell’ambito di Elefante Festival del tempo lungo, il 17 giugno 2017. La Zip, zona industriale di Padova, è uno dei pochi casi in Italia di insediamento produttivo guidato da un ente pubblico: dal 1957 ha trasformato un pezzo di campagna padovana in una griglia uniforme di strade, industrie e servizi. L’inchiesta ricostruisce i conflitti che segnarono le prime fasi – segnate dalle proteste degli espropriati –, la storia dei borghi rurali – come Olmo – che furono cancellati e le esperienze che, anche grazie all’iniziativa del Consorzio Zip, tengono viva la presenza agricola e “verde” nell’area industriale.

Via Gramogne, a Padova, è una svirgolata all’interno di una ferrea maglia squadrata di strade. La imbuchi da via Germania dopo aver passato un rosario di magazzini, concessionari d’auto, parcheggi, capannoni. Ora costeggi un campo coltivato, una boscaglia, un’area verde inselvatichita. Dopo la curva ti si presenta casa Pagnin, una dimora contadina che mostra segni visibili di antiche vestigia. È una delle pochissime case sopravvissute alla costruzione della zona industriale, custodita, insieme all’orto e alle bestie, dagli ottantenni Francesco e Maria Pagnin. Il figlio Stefano ne ha fatto il Circolo Wigmam “il Presidio”, animandola di inziative culturali e destinando a orti collettivi un vicino campo abbandonato.

Potrebbe sembrare un angolo di mondo casualmente preservato da un dio distratto. Ma anche il preludio di ciò che, in qualche modo, potrebbe diventare la Zona industriale di Padova, immaginandola come un incrocio di pratiche e di economie. E non come una piattaforma neutra di attività produttive.

Una zona industriale: un’idea di sviluppo

“La Milano del Veneto”. Negli anni ’50 il futuro di Padova veniva immaginato così. Era un’idea che informava in qualche modo il progetto di città. Milano rappresentava un’idea di modernità e di sviluppo e Padova poteva rivestire quel ruolo anche se in un territorio diverso. La creazione di una zona industriale faceva parte di quell’idea: dare un impulso all’industrializzazione dell’area padovana fino ad allora vocata al commercio trasformando i caratteri e la cultura tradizionale di una città.

L’industrializzazione nel padovano era sbocciata in realtà negli anni ’20 e, come documenta in uno dei suoi studi Giorgio Roverato, già negli anni ’30 si facevano sentire le pressioni della neonata associazione degli industriali per la creazione di una zona industriale che liberasse il centro storico dagli insediamenti industriali. Le maggiori imprese erano allora collocate sulla direttrice del Piovego, da piazzale Boschetti alla Stanga (Italcementi, Torpado, Sade, Viscosa, Rizzato).

È l’11 dicembre 1956 quando la Provincia, la Camera di Commercio e il Comune costituiscono il Consorzio per la zona industriale e il porto fluviale di Padova, con un capitale iniziale di 15 milioni di lire, cinque per ogni ente e una fideiussione di 200 milioni di lire presso la Cassa di risparmio di Padova e Rovigo. Una cifra modesta anche per quei tempi. Il sindaco di Padova Cesare Crescente sarà il primo presidente del Consorzio Zip, dal 29 aprile 1957 sino al 1973. La figura del sindaco e del presidente della Zip coincideva: non sfugge il significato politico di quella scelta, la scommessa della Zip è centrale per la Padova di quegli anni.

La scommessa è vinta grazie a una legge speciale dello Stato, la 158 del 1958, che garantiva al Consorzio la capacità di esproprio di 7 milioni di metri quadri di terreno agricolo nella zona di Camin, San Lazzaro, San Gregorio e Granze. La localizzazione fu oggetto di dibattito, il Piano regolatore prevedeva una diversa localizzazione verso Ponte di Brenta, ma gli industriali premettero per una localizzazione più a est. E così fu, malgrado le resistenze della Coldiretti, che si batté invece con successo, con il deputato Fernando De Marzi, per prevedere un’indennità anche per i fittavoli e i mezzadri e il riconoscimento di una somma pari al 10% dell’indennità di esproprio al conduttore di un’azienda agricola per facilitare il trasferimento e il rilancio dell’attività.

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Non passò invece la richiesta — contenuta in una prima versione del disegno di legge — di concedere benefici fiscali (esenzione fiscale decennale dal reddito) per le aziende che vi si fossero insediate. Esenzione invece prevista in molti comuni del Veneto grazie al riconoscimento delle zone depresse. Ci pensò il Comune a garantire l’esenzione delle tasse comunali. Comunque le imprese arrivarono lo stesso. Non solo per le agevolazioni di cui comunque potevano godere, ma soprattutto per i servizi — i collegamenti in primis — di cui potevano usufruire. Nel 1958 il Consiglio direttivo del Consorzio delibera la precedenza degli espropri delle aree destinate a strade e già nel 1960 la Zip godeva di una rete di oltre 20 chilometri di strade interne, di due caselli autostradali, uno a nord della Zip (Padova Est), e uno a sud-est (Padova zona industriale), oltre a un raccordo ferroviario di oltre 6 chilometri con relativo scalo merci costruito per collegare la zona industriale con la stazione ferroviaria di Padova.

“La Zip nasce con idee grandi, basta vedere corso Stati Uniti: ancora adesso è la strada più grande della città, costruita a tre corsie quarant’anni fa”, racconta Alberto Ongaro, che della Zip è stato presidente dal 1994 al 2004. Poi le cose, come vedremo, prenderanno un’altra piega.

La costruzione della Zona industriale libera la città di diverse produzioni inquinanti, nel nome della razionalità dello zoning urbanistico che prevedeva lo sviluppo monofunzionale delle singole aree. Ogni cosa al suo posto, verrebbe da dire. Fino agli anni ’50 nella zona di piazzale Boschetti, a una manciata di metri dalla Cappella degli Scrovegni, sorgevano industrie di legname e carbon coke. Chi ricorda quel tempo riporta l’impressione di una città grigia e polverosa: allora 124 industrie meccaniche e 19 industrie chimiche erano collocate all’interno delle mura del ’500, senza contare i piccoli laboratori che convivevano con le abitazioni.

I vuoti creati avrebbero potuto rappresentare una buona occasione per una rivisitazione dell’urbanistica cittadina. D’altronde è lo stesso Piano regolatore di Luigi Piccinato che prevede: “Con la creazione di questa zona industriale si renderà possibile la graduale smobilitazione del settore industriale adiacente al Corso del Popolo e via Nicolò Tommaseo, e la sua trasformazione in importanti settori edilizi a costruzioni intensive in gran parte ad uso commerciale o residenziale intensivo”. Un coraggioso progetto, dell’inizio degli anni ’90, degli architetti Favaro, Yaxley e Saito immaginò per via Tommaseo, una volta trasferiti i magazzini generali e altre imprese, un boulevard e lo sviluppo di un parco che connettesse il Piovego al cimitero dell’Arcella sopra e oltre la Ferrovia. La politica e gli interessi a essa collegati spinsero verso altri disegni.

Le battaglie contro gli espropri

“Eravamo tanti — sai quanti ? — non saprei dire i numeri, ma eravamo in tanti, e pensavamo di vincere, di difendere la terra. Avevo 16 anni con mia sorella gemella, siamo andati tante volte a manifestare a San Lazzaro, c’era la polizia, sì. Il prete non diceva di andare, ma si capiva che era d’accordo. Finché sono andati a Roma e sono tornati dicendo che non c’era più niente da fare e che ci toccava cedere”. Luigina Borgato ricorda bene quei giorni in cui i contadini manifestavano a San Lazzaro contro gli espropri per la costruzione della zona industriale. Lei veniva dalla zona di Granze, da l’Olmo, un paese che non c’è più, ma a san Lazzaro andavano tutti i contadini — da San Gregorio, da Granze, da Camin — che sapevano che, mano a mano, sarebbero stati espropriati.

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